Finché sono stato un giornalista, “successo” era un participio passato, una di quelle parole che scivolano senza peso: è successo questo, è successo quell’altro.
“Successo” è diventato un sostantivo quando sono entrato nel mondo delle aziende: una parola balsamica, a volte buttata lì e lasciata intendere ed altre inchiodata sulla croce del personal branding quotidiano. Men’s Health (e soprattutto il suo approccio da miracolo per chiunque – via la panza, addominali marmorei, strage di pivelle) saranno un registro superato, pensavo.
E invece no.

Sarà che sono cresciuto, sarà che non giro più in redazioni di sociopatici dove si mangia la pizza con le mani al desk e la gente passa in monopattino urlando risultati della Serie C, sarà che vivo nel nord-ovest italiano in cui se va bene è Cantù Che Conta Col Cayenne e se va male è Provincia Granda, ovvero un deserto (massì, lo dico) culturale dove l’obiettivo di migliorare il weekend cannibalizza il desiderio di migliorare la vita, ma questa concezione del successo ha iniziato a spaventarmi. E a infastidirmi.
Guardavo, sospeso tra interesse e imbarazzo, le autopromozioni dei più o meno giovani guru del marketing – ebbene sì, mi tocca occuparmi di questo settore: taglio di capelli da calciatore, camicia aperta al secondo bottone ed un incondivisibile ottimismo su tutto.
Guardavo quanta fatica, quanta fatica facevano per sembrare naturali: la palestra, la forma fisica, nessun dubbio, ricette perfette, un meccanicismo tra azione e risultato che Cartesio lévate. Un sottinteso: il successo è questione di volontà e tutto il resto è un mix imperdonabile di stupidità e pigrizia.

In uno sfogo contro uno di quei sedicenti guru – che ho avuto la decenza di tenere nel cassetto e far leggere solo a qualche amico – imploravo di “lasciarmi fallire in pace”.
Perché di questa necessità abnorme di perfezione e successo io sentivo e sento una pressione devastante: alla mia generazione (gli sfigati degli anni ’80) hanno sempre sottolineato i privilegi. Certo, siamo cresciuti con Bim-Bum-Bam e le Crystal-ball erano oggettivamente una figata; e altrettanto certamente abbiamo avuto accesso ad istruzione ed una quantità di informazioni fotonica, evitandoci tra l’altro di subire la pervasività dei social network in età adolescenziale.
Ma d’altra parte ci siamo trovati innanzi un mondo del lavoro dedicato a solutori più che abili, come certi schemi particolarmente sadici della Settimana Enigmistica: nessuna coscienza di massa e un singolarismo cannibale esasperato.
Con pochi modelli di successo (aridaje) davanti a cui era ovvio sentirsi stupidi e inadatti (“e”, non “o”: tutti e due), ed il resto era lotta nel fango: da una parte la chimera del tenore di vita dei nostri genitori, irreplicabile; dall’altra la nostra laurea, conseguita magari senza eccellere ma con dignità, e alla fine buona giusto come carta da parati.
Cos’è la pressione? È non poter sbagliare: scelta del liceo, scelta universitaria, primo lavoro, vestito, città, compagnie. I modi, i toni, e ovviamente la preparazione.
Le hard e le soft, ogni momento è decisivo e smette di esserlo solo dopo, quando non si concretizza.
Come vivere decentemente quando l’unica occasione esiziale potrebbe essere la prossima (e tendenzialmente, non ne sei consapevole)? Semplice: stando sempre all’erta. Con un profluvio di mental coach, outfit expert, speech trainer, e la postura, l’aggiornamento, la programmazione neuro linguistica, il mirroring. Con l’obiettivo di essere fit to role, qualunque cosa significhi.

Questa, è la grandissima fatica: essere accettati. Anzi, vendersi (mi pareva fosse un brutto verbo se applicato alle persone), aderendo all’ideale di perfezione sempre diverso, a seconda delle aspettative in cui si incoccia, con l’inadeguatezza a comune denominatore: grandiosi tentativi per smettere di essere – e iniziare ad appartenere, ad essere compliant a qualcuno o qualcosa. Non certo per stare bene, non subito.
Sono quelle altre, tuttavia, le parole chiave: eccellenza e dignità. Le eccellenze esistono e dovrebbero fare le eccellenze, ovvero cose che solo loro sono in grado di fare.
Se la pretesa di eccellenza diventa un concetto di massa, oltre a impelagarsi in una contraddizione da rudimenti di logica aristotelica si creano morti e feriti. Si trascura, appunto, la dignità: la normalità, tanto schifata ovunque ma che – se si valuta con un minimo di onestà intellettuale – ci travolge tutti, prima o poi. Fare il proprio, con onestà e dignità e impegno, senza pretendere miracoli.
“Anche mollare”, come si dice in un gioco di carte delle mie parti.
E dunque, siccome questo spicilegio di pensieri non serve a fondare una religione e non ha la pretesa di raccogliere proseliti, ma è il primo mio contributo all’avventura di un amico, concludo con un augurio: io non so in quanti perséguano la perfezione, così come non so se il semestre di pandemia in cui siamo e saremo immersi ci porterà a rivalutare pressioni, ambizioni, aspettative o più banalmente necessità.
Ma io penso – ed è sostanzialmente una supplica, pensa te come siamo messi – che ogni persona abbia e possa dare un valore, e sottolineo un valore semplice, umano, se gli si concedono gli spazi per esprimerlo. E che il modo migliore per inibirlo e massacrarlo sia tempestarlo da pretese di assolutezza, infallibilità e appunto perfezione: auspici sovrumani che ci siamo ridotti a pretendere dagli altri – e da noi stessi – perché non abbiamo più un Dio a cui chiederli.